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Cosa non funziona del Watchmen di Damon Lindelof

Cosa non funziona del Watchmen di Damon Lindelof

Non ho amato la serie HBO “Watchmen”. Anzi, direi proprio che l’ho detestata. Avevo promesso su Facebook un post che avrebbe chiarito i motivi di quella che da un’iniziale perplessità si è tramutata gradualmente in irritazione e poi in un rigetto violento e quindi eccomi qui.

Prima di cominciare:
1) il post è pieno di spoiler, quindi se non avete visto la serie tv, evitate;
2) al di là delle dichiarazioni espressamente rilasciate da Moore e che riporto testualmente, il post è frutto di elucubrazioni personali;
3) l’analisi sarà articolata in due parti, una prima dedicata al rapporto con l’opera originale e l’altra di analisi dell’opera in sé, nei suoi elementi drammaturgici.

Il rapporto con l’opera originale
(Watchmen di Moore e Gibbons)

La maggior parte delle lodi ricevute dal Watchmen di Damon Lindelof sono legate alla tematica razziale che fa da sfondo al racconto. Si parte dal massacro dei neri a Tulsa commessa da un’organizzazione di suprematisti bianchi detti “Ciclopi”, si passa per una minaccia rappresentata da un’organizzazione razzista come il Settimo Cavalleggeri, si approda a un Dottor Manhattan con le sembianze di un nero per culminare con una donna di colore che assorbe (forse o forse no) i poteri dello stesso Manhattan e quindi di un dio.
È un racconto a tesi, non è un racconto a tema, perché non ha contraddittorio. Il racconto a tesi è una scappatoia facile perché libera l’autore dal difficile compito di dover rendere complessi i due poli opposti di un conflitto valoriale. Ma su questo torneremo nella parte strettamente drammaturgica. Restiamo sul rapporto tra serie e fumetto.

Si è detto che la serie tv di Watchmen è un tradimento e allo stesso tempo un atto di amore nei confronti dell’opera di Moore. A ben vedere, invece, ne è la negazione, anzi la nullificazione. La serie tv di Lindelof, coscientemente o meno, ribalta il senso stesso del fumetto e delle intenzioni di Moore.

Partiamo dalle dichiarazioni di Moore. Se non fosse stato già chiaro leggendo il fumetto, Alan Moore mette in chiaro il suo punto di vista sui supereroi:

“I supereroi stessi – in gran parte scritti e disegnati da creatori che non hanno mai difeso i propri diritti contro le aziende che li impiegano, tanto meno i diritti di un Jack Kirby o un Jerry Siegel o un Joe Schuster – sembrerebbero essere ampiamente impiegati come compensatori di codardia, forse allo stesso modo di una pistola sul comodino. Vorrei anche sottolineare che, a parte una manciata di personaggi non bianchi (e creatori non bianchi), questi libri e questi personaggi iconici sono ancora oggi i sogni suprematisti bianchi della razza superiore. In effetti, penso che un buon paragone possa essere fatto con La nascita di una nazione di D.W. Griffith, che considero il primo film di supereroi americani e il punto di origine di tutti quelle maschere e quei mantelli.”

Alan Moore

Anche Damon Lindelof legge queste righe e pensa di prenderne spunto per la sua rilettura di Watchmen. Come avrete notato, infatti, in Watchmen non ci sono né Minutemen, né Watchmen di colore.
Ma Lindelof trova “un anfratto” nell’identità segreta di Hooded Justice, ragiona su quel cappio al collo (in un’operazione che lo avvicina pericolosamente in zona “Martha” di Batman v Superman) e decide di farlo diventare un eroe di colore, nato dalla persecuzione di uno pseudo Ku Klux Klan. Da questa scintilla, in pratica, discende tutta l’impostazione della sua serie. Il fatto è che quest’impostazione è l’esatto opposto di quanto fatto da Moore.

Se in Watchmen i personaggi mascherati sono solo bianchi è perché, per Moore, i supereroi mascherati sono frutto di una fantasia suprematista e, infatti, nella sua opera sono tutto tranne che “eroi”. Non hanno nulla di positivo. Basta una veloce carrellata dei personaggi (un narcisista megalomane, un sadico, un sociopatico psicolabile, un semidio distaccato, un fallito, una frustrata senza identità) per rendersi conto che non sono eroi e non c’è niente di eroico in quello che fanno. L’unico che sarebbe capace di un gesto memorabile (Rorschach) viene ridotto in atomi mentre i suoi “amici” decidono di mentire al mondo “per il bene dell’umanità”.

A Moore non interessa mettere in scena un supereroe di colore. Non vuole proprio farlo. Gli unici due personaggi di Watchmen di colore degni di nota sono Bernie, il ragazzo che legge fumetti, e, soprattutto, il dottor Malcom Long.

Vorrei soffermarmi sul secondo perché ha un ruolo cardine. Nel rapporto tra Malcom Long e Walter Kovacs (alias Rorschach) si consuma tutto il senso del mio odio per la serie tv di Watchmen.

Moore usa Rorschach come voce narrante iniziale della sua storia, ci fa affezionare a lui, al suo modo di vedere il mondo, quello di un giustizialista dall’etica di un vigilante in stile Punitore. Il suo è indubbiamente il look più affascinante: impermeabile e borsalino da detective e una misteriosa maschera cangiante. Ma quando ne rivela l’aspetto, Moore non ha pietà. Rorschach ha un volto ridicolo e incarna alla perfezione la bruttura dell’eroe mascherato.

Malcom Long, invece, è un uomo normale. L’unico personaggio nero di peso in Watchmen, è un uomo normale. Anzi, è uno psicologo. Un medico che è lì per curare Rorschach. Perché Rorschach è un povero infelice malato di mente.

Che Moore lo abbia fatto coscientemente o meno, con questa scelta narrativa ha già detto tutto. L’eroe mascherato è un brutto e ridicolo pazzo psicotico, frutto di un’infanzia orribile, mentre l’uomo di colore è quello che potrebbe aiutarlo a liberarsi dal male che lo avvelena. Potrebbe, ma non ce la fa. E infatti Rorschach, alla fine del suo percorso, proprio perché non cambia, muore. Torneremo su questo concetto poco sotto, quando passerò ad analizzare drammaturgicamente la serie tv.

Va da sé che, l’operazione di inserire un eroe di colore nel contesto di Watchmen vanifica completamente l’opera stessa di Moore. Lindelof compie una scelta che trasforma il suo racconto nell’antimateria che distrugge la materia stessa. E questo perché Moore ha già detto tutto su razzismo e suprematismo facendo una scelta sottile ma determinante. Una scelta a cui non c’era bisogno di aggiungere altro.

Lindelof cambia le carte in tavola e il senso di Watchmen implode su se stesso.

Sorvolo sul tono grottesco della serie tv che nulla ha a che vedere con quello dell’opera originale e che sembra più gratuito che strettamente necessario e passo ora a fare una considerazione drammaturgica che sarà molto più breve.

Analisi dell’opera (tratti drammaturgici)

La serie di Lindelof è scritta bene? No.
I personaggi non hanno evoluzione, non cambiano. Non c’è arco, non c’è percorso.
Ci sono solo una serie di fatti che non influiscono sul percorso evolutivo e sulle scelte dei personaggi in campo.
La verità appresa da Angela Abar su suo nonno la cambia? No.
L’indagine di Laurie Blake la cambia in qualche modo? No.
E il suo ultimo incontro con il dr Manhattan? No.
L’esilio di Ozymandias lo cambia? No.
L’unico personaggio che sembrerebbe avere un arco di trasformazione (Looking Glass) lo vede bruscamente interrotto e incompiuto.
Se non c’è cambiamento, non ci può essere empatia. E infatti non c’è empatia nel Watchmen di Lindelof ma solo una serie di punti interrogativi a cui, episodio dopo episodio, viene data risposta. Il tutto costellato da una serie di provocazioni fini a se stesse e di easter eggs che dimorano dalle parti del fan service.

Di peggio, Watchmen di Lindelof non ha un tema di racconto. Ha solo una presa di posizione nei confronti del suprematismo bianco, nei confronti del trumpismo e di Trump stesso. L’intento è interessante, sia chiaro, ma non c’è nessun tema articolato lungo il racconto. Niente.
E quando parlo di articolazione, intendo uno scontro di valori, rappresentato da personaggi, azioni, desideri confliggenti ma che hanno la stessa dignità di racconto.

Watchmen di Lindelof, costellato peraltro di un’infinita serie di soluzioni feuilletonesche (la figlia segreta di Ozymandias!) e di facili scorciatoie narrative (cfr. Looking Glass e l’insalata, la madre di Lady Trieu che entra indisturbata nello studio di Veidt, ecc. ecc.) è il grado zero della narrazione, abilmente mascherato da venti anni di mestiere.

Di fronte a una sciatteria di questo tipo, la stima cala a zero e l’operazione sembra più un “arraffa arraffa” messo in scena con sapienza che il seguito di un’opera cardine e immortale.


La serie è visibile su Sky Atlantic. Questo è il primo trailer rilasciato da HBO:

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